
Fotografie di Pierluigi Orler
Ce ne stavamo in Africa felici. Felici perché vedevamo che coi soldi dell’Onlus “Amici della Sierra Leone Parma” erano stati inaugurati asili, scuole primarie e scuole secondarie e potevamo bagnarci negli occhi gioiosi dei maestri e dei bambini.

Felici perché, seppur devastati dal sudore grondante e dal rumore insostenibile della festa, stringevamo le mani ai ragazzi che con le borse di studio di casa nostra avevano in mano un bel diploma di laurea dell’università di Makeni. Felici perché l’Unimak, voluta e gestita da vescovi italiani, in quel momento di gioia e di tripudio, era il segnale dell’Africa che cammina.

Felici perché, pur trovandoci in un Paese dove c’è un medico ogni centomila abitanti, pur trovandoci in un Paese che sta tra i quattro più poveri del mondo, avevamo appena visitato una scuola dove i bambini sordomuti (in una nazione dove sono considerati poco più che indemoniati), grazie anche alla generosità degli “Amici”, vengono istruiti, sfamati, accuditi. Imparano a scrivere, a leggere, a saldare il ferro e a piallare il legno.

Eravamo felici perché dopo avere sofferto per sei ore e mezzo su una quattro per quattro sgangherata guidata da un vescovo in T-shirt, Natalio Paganelli, dopo avere saltato come canguri in mezzo alla polvere rossa degli sterrati africani, eravamo arrivati in un villaggio in mezzo ai monti dove i piccoli, con le loro divise azzurre, povere ma pulite, avevano a disposizione un maestro, una penna e un quaderno. E pensavamo alla frase del premio Nobel per la pace Malala Yousafzai: “un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo”.

Eravamo felici perché pochi giorni prima avevamo inaugurato un asilo a Lunsar costruito col lascito di una signora emiliana, dolce e buona, che aveva detto a un notaio dal cuore d’oro: “voglio lasciare i miei soldi ai bambini africani. Ci pensi lei”. E lui e gli “Amici” ci hanno pensato.
Eravamo in sei, Pierluigi, il fotografo, Graziano, il cameramen, Eugenio, l’economista filantropo, Marco, il notaio, Adriano, l’imprenditore agricolo che anima l’Onlus ed io, il giornalista. Tutti felici perché pensavamo agli articoli che avremmo scritto, ai documentari che avremmo montato, alle proiezioni fotografiche, alle mostre. Tutte cose che avrebbero portato in Sierra Leone denaro “fresco”, tanto, e nuove speranze.

Poi ci siamo trovati all’aeroporto di Bruxelles. Abbiamo lasciato il volo africano e ci siamo imbarcati su quello per Milano. L’aereo era vuoto. Letteralmente vuoto. Ho chiesto allo stuard: “What’s going on”? “Corona virus”. Mi ha risposto. E, da quel momento, nulla è più stato come prima.
Ora siamo qui, chiusi in casa, che ci scambiamo whatsapp nella nostra chat e ci chiediamo: cosa succede se questo “carognavirus” colpisce un paese dove esiste un medico ogni centomila abitanti? Rivedremo quelle suore, quei missionari, quei maestri, quei professori, che combattono per il riscatto dell’Africa? E sarà vero che il coronavirus risparmia i bambini? Se sì, risparmierà anche quelli poveri e malnutriti, quelli che ci guardavano coi loro immensi occhi marroni, profondi come un pozzo senza fine e che noi avremmo portato volentieri nelle nostre case a giocare coi nostri figli e i nostri nipoti?
Pensavo a questo, quando è suonato il telefono e mi hanno detto che mio cugino era in ospedale chiuso dentro un orribile scafandro.