foto Gianni Perotti

Poco prima di Natale si è svolta a Parigi l’Assemblea Annuale dell’UNESCO, seguita dal nostro socio Gianni Perotti che ci propone l’intervento di Jean Didier Urbain, antropologo e sociologo studioso da 40 anni del comportamento e delle motivazioni del turismo.

Con il Covid-19 il mondo attraversa da due anni una crisi di una ampiezza inedita che colpisce in maniera drammatica il settore turistico. Nel 2018 il turismo rappresentava il 10% del PIL mondiale. Alla fine del 2020 è calato al 5%. Il numero dei viaggiatori internazionali è passato da 1,5 miliardi di viaggiatori a poco più di 400.000. Il settore turistico mondiale consta di 270 milioni di addetti, la più parte dei questi ha perso il lavoro in una situazione nella quale è molto difficile riconvertire il proprio universo professionale.

I paesi più colpiti sono quelli senza altre alternative economiche come le Bahamas, le Isole greche, ma anche la Thailandia (-21%), la Tunisia (-23%), il Portogallo (-19%). Purtroppo nemmeno nella Comunità Europea i paesi agiscono in maniera unitaria né concreta: ciascuno segue i suoi interessi immediati con una politica di controlli irrazionale, inefficace e contraddittoria.

Di conseguenza la popolazione ha reagito estendendo il telelavoro, la migrazione dalle città verso piccoli centri e nelle campagne. Abbiamo assistito a un innalzamento di acquisti di residenze alternative o di bi-residenze come per un rifugio antiatomico in versione sanitaria.

Molti osservatori si aspettano una ripresa spettacolare del turismo, una bulimia del viaggio, ma io non sono ottimista in questo senso. In caso di una ripresa della domanda non ci sarà una mutazione virtuosa rispetto allo schema dominante (turismo di massa, viaggi tutto-compreso, mete tradizionali) perché i principi commerciali dell’industria turistica non sono cambiati. Ci vorrà molto tempo affinché le linee di accesso al viaggio si adattino a un nuovo modello, iniziando dalle Compagnie aeree. Il concetto stesso di aereo deve cambiare: non grandi aerei che portano centinaia di persone, ma modelli più piccoli che possano raggiungere anche destinazioni meno servite, utilizzando nuove tecnologie di volo (distanze maggiori con autonomie di volo aumentate, atterraggi in spazi più brevi).

Il turismo può essere distruttore dell’ambiente come qualsiasi altra industria. In Spagna la Costa Brava o la Costa Dorada, urbanizzate e artificialmente modificate nella loro struttura, sono esempi mostruosi. Per soddisfare l’industria turistica si è sacrificata la bellezza e si è distrutto il litorale. In Perù il Machu Picchu è un formicaio. A Dubrovnik non c’è più niente di autentico, lo stesso responsabile della conservazione della città è stato arrestato per traffici immobiliari. Amsterdam, facilitando in ogni modo l’accesso al turismo, con la pubblicizzazione dei propri Musei, le vie strette e pittoresche, la birra a basso prezzo e la cannabis libera, è passata dal 2008 da una decina di milioni di turisti all’anno a 18 milioni, con tutto ciò che ne è conseguito: degradazione, danni per ubriachezza, disordini con i cittadini residenti.

Il 95% dei vacanzieri si concentrano sul 5% del Pianeta. Perché non privilegiare lo spazio libero alla scoperta? Un turismo diffuso può generare lavoro in differenti regioni del mondo. Ma i tour operator comprano destinazioni dove ci sono già servizi, aeroporti, villaggi turistici convenienti.

Come riformare un modello al limite della congestione e della sostenibilità? Ci vorrebbe una politica coraggiosa che si impegni nella decentralizzazione. Esistono due strade per regolare i flussi turistici: o si limita il numero dei visitatori con un sistema di prenotazioni o occorre deviare i flussi creando altri accessi e altri punti di attrazione valorizzando i patrimoni meno conosciuti. Al Louvre 6 visitatori su 7 entrano per vedere la Gioconda, mentre ci sono tanti altri tesori da ammirare in questo museo. Bisogna mettere in atto dei processi organizzativi chiedendo all’industria turistica una vera deontologia per affrontare questo enorme problema.

Airbnb o Booking non si interessano alla frequentazione. Fanno il loro business. Si è creduto a un certo punto che B&B potesse essere il rimedio ideale per rispondere ai problemi di un turismo segregato nei complessi alberghieri. Era l’illusione di un turismo integrato nelle città e quindi una reale residenza tra gli abitanti del posto nella logica dell’immersione. Ora è chiaro che questa immersione è diventata una sommersione.

È indispensabile limitare il numero dei turisti in rapporto ai residenti! È apparsa una voce nuova nel campo del marketing che si chiama de-marketing. Indica la scelta di abolire ogni comunicazione su certi siti turistici per limitarne l’attrazione. Ma come è possibile applicare al marketing una scelta simile?

Jean-Didier Urbain

Il cambiamento climatico con le sue catastrofiche conseguenze possono limitare le nostre possibilità di viaggiare? Questi drammi ambientali colpiscono innanzi tutto le popolazioni locali più che il turismo. Ciò che svantaggerà certe aree sarà vantaggioso per altre destinazioni. Almeno temporaneamente. Il cambiamento climatico già da decenni produce grandi ineguaglianze. Senza andare troppo lontano la frequentazione turistica del Sud della Francia si è rivolta quest’anno sulla Bretagna e ai paesi scandinavi.

Ma se il turismo ha una parte di responsabilità sullo stesso cambiamento climatico, sia che i flussi si muovano verso Sud o verso Nord la situazione climatica non ne ricava alcun miglioramento. Si è stimato che il 10% delle emissioni di gas serra deriva dagli spostamenti turistici, soprattutto via aerea. Ma allora chi avrà il diritto di inquinare in avvenire? A breve termine, entro il 2030 bisognerà decidere a chi tocca sacrificare la libertà di circolare. Circoleranno di più i beni materiali o gli uomini? Certamente il turismo sarà la prima vittima degli eccessi della globalizzazione. Una buona occasione sarebbe stata quella di delocalizzare le industrie non per aumentare i profitti ma per diminuire i trasporti. Ma le logiche della globalizzazione vanno in senso opposto. Non sempre i dati scientifici trovano spazio nelle scelte dei governi. Inoltre gli orientamenti della gente, per esempio nella campagna lanciata attorno al flygskam, ovvero la vergogna di viaggiare in aereo, non favorisce una presa di coscienza degli individui, ma agisce sul senso di colpa. Non avvicina veramente ai temi climatici.

L’idea di un turismo consapevole era già nell’aria da anni, su giornali e televisione, ma come un ideale da realizzarsi il più lontano possibile. Prima della crisi pandemica, il 15-20% dei viaggiatori aerei si poneva il problema dell’inquinamento. Attualmente questa sensibilità sta lentamente aumentando e si avverte un sentimento di responsabilità in rapporto all’ambiente, verso un turismo meno predatorio e più intelligente nei riguardi del pianeta. L’idea che deve nascere non è di praticare un turismo verde come fosse una religione personale. Tutta la filiera dello spostamento, i capitali, la catena degli attori deve evolvere verso scelte e comportamenti sostenibili. Cioè verso una nuova forma di turismo in cui la lontananza e la notorietà dei luoghi non sia così appagante quanto la scoperta più approfondita del territorio e delle sue risorse.

Attenzione, lo slow-tourism non è sinonimo di obbligata prossimità. È l’invito a scalare le marce, un’ evoluzione verso viaggi più lunghi e meno frequenti. La moltiplicazione delle mete e dei tragitti moltiplica l’inquinamento e diminuisce la sostenibilità dei siti. Un cittadino francese o inglese o italiano fa in media da tre a sei viaggi brevi all’anno. Il desiderio di viaggio tende a mondializzarsi nella classe media sia in Cina che in India che in Sud America. Questa tendenza, secondo gli studi in atto, porterebbe a 2 miliardi di viaggiatori nel 2030 e oltre 3 miliardi nel 2050.

Inoltre l’urbanizzazione in continua crescita verso i grandi centri porta a un incremento di voglia di evadere. Anche la fine della pandemia, che ha limitato per due anni gli spostamenti, sarà un incentivo in più per viaggiare. Cercare un altro modo di vivere e di viaggiare servirebbe a evitare di entrare in una via senza uscita. Siamo tutti d’accordo che il turismo è la cosa migliore per conoscere il mondo, incontrare gli altri e se stessi, il rimedio alla xenofobia e all’egocentrismo. Il turismo è un fattore di pace, ma senza un viaggio responsabile la prospettiva davanti a noi è quella di restare tutti a casa.

 

Giovanni Perotti

Giovanni Perotti

Architetto per formazione, giornalista per curiosità e professione, ha attraversato tutti i settori dell’informazione senza lasciarsi coinvolgere in nessuno di essi. Redattore di Casa e Uomo Vogue, viaggiatore per il Corriere della Sera e Capital (America, Africa, Australia), ha attraversato a piedi il deserto dell’Akakus. È andato in auto ovunque (da Cabo San Luca a Pechino – via Dakar, Darwin e Malaysia). Ha partecipato ai raid più tosti comprese la Parigi-Dakar e la Harricana (Labrador) facendone la cronaca. Come architetto sta portando a compimento il Progetto UNESCO per gli Ksour tunisini.
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