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Dei tre giorni passati a Mosca – tre sono pochissimi per una città immensa come la capitale sovietica, lo so – quello che mi ha più colpito è stato un edificio grigio lungo le rive del fiume che attraversa la città.

Un edificio come tanti altri, in stile costruttivista, molto grigio, molto alto, molto severo. Niente a che vedere con le cupole d’oro delle chiese ortodosse, con la grandiosità della Piazza Rossa, con l’oro delle icone, con le pellicce delle signorine dalle labbra troppo grosse che sostano nella hall dei grandi alberghi.

La House of Embankment ha una storia allo stesso tempo grandiosa e terribile. Edificata nel 1931 era uno degli edifici più all’avanguardia dell’epoca. Grande come diversi blocchi di edifici tutti insieme aveva cinema, teatro, palestra, asilo per i bambini, parrucchiere, negozi di alimentari, mensa, campi da tennis e da basket e molto altro.

Gli appartamenti erano 505, arredati tutti allo stesso modo, per l’epoca piuttosto confortevole senza essere lussuoso, con letto, scrivania, tavolo e sedie, tutti creati da designer sovietici in voga al momento, tutti con la targhetta che ne riportava il numero di fabbricazione. Chi ci abitava non doveva nemmeno uscire, trovava tutto quello che poteva servire a una vita comoda all’interno dell’edificio. Tornava dal lavoro, ritirava il pranzo per tutta la famiglia nel ristorante, lo metteva nella gamella di alluminio (tutti la stessa, ovviamente) e lo portava a casa. Le mogli non rimanevano a casa a cucinare, erano incoraggiate a lavorare all’esterno, secondo la solida teoria comunista che tutti devono lavorare per il paese, altro che stare a casa a stirare camice. Infatti c’era anche la lavanderia, all’interno dell’edificio, che pensava a mandare al lavoro uomini e donne puliti e stirati alla perfezione. La mattina, da un ascensore speciale, gli addetti al ritiro delle gamelle sporche e dei rifiuti accedevano alle cucine e portavano via quello che non serviva, ritiravano i panni da lavare, facevano le pulizie.

Una vita comoda per gli abitanti della House Government, come si chiamava allora. Che altri non erano che l’élite dell’Ex Unione Sovietica, apparatchik di regime, intellettuali marxisti, ufficiali dell’Armata Rossa, dirigenti di partito.

L’appartamento veniva dato in uso gratuito a chi ‘ne aveva diritto’, mi spiega Olga, che mi accoglie nella piccola stanza-museo, lasciata tale e quale come era dagli anni ’30.

Mi giro intorno nella piccola stanza, con ancora i libri, le foto alle pareti, la vecchia radio a transistor e vedo un grande poster con tante piccole foto. Le didascalie sono in cirillico, ma da giorni mi sto sforzando di leggerlo e complice il greco dei mei studi classici, riesco a capirci qualcosa. Sotto ogni nome c’è una parola che somiglia a ‘deportato’ e una lettera che, mi spiega Olga, vuol dire ‘suicidato’, ‘giustiziato’, o ‘inviato in orfanotrofio’. Oppure, semplicemente ‘deceduto’.

Li conto velocemente. Sono 800. Gli abitanti dell’edificio erano poco più di 2000. Non sono brava in matematica ma ci arrivo lo stesso a capire che un 40% degli abitanti era finito male.

“Sparivano da un giorno all’altro e nessuno, nemmeno i famigliari sapevano dove fossero”, mi spiega Olga. “Le mogli o i mariti dovevano fare file di ore fuori dalle varie prigioni per scoprire se ci fosse il loro consorte. Magari venivano rimandati a casa dopo ore sotto la neve senza una risposta. Se finivano in Siberia, non se ne avevano più tracce”.

A volte venivano portati via sia la moglie che il marito, a volte insieme, a volte a distanza di qualche giorno o settimana. I bambini venivano portati in orfanotrofio e gli veniva cambiato nome. Poi venivano dati in adozione o crescevano in campi ‘educativi’. A quel punto, se i genitori sopravvivevano alla vita nei gulag, fatta di lavori pesanti e poco cibo, ritrovare i figli era un’impresa.

Per finire nei gulag non bisognava aver compiuto chissà quali efferatezze: una parola sbagliata, uno scherzo, bastavano a essere bollati come nemici, possibili spie, anti-comunisti.

Nei gulag si veniva rieducati ai valori del comunismo, per un tempo che durava 7-8 anni. Poi i sopravvissuti potevano tornare a casa. Sempre che la ritrovassero.

‘Alla fine del regime c’era una trasmissione radio di grande successo che cercava di ricongiungere i familiari, madri con figli, mogli con mariti, fratelli e sorelle. Era un’impresa, in pochi casi ci riuscivano”, continua Olga.

La storia dell’edificio è raccontata in un libro di Yuri Slezkine, intellettuale russo diventato poi professore all’Università di Berkley, California. Ma bastano quei pochi metri quadrati sistemati a museo – e nemmeno dei più sofisticati, con un’entrata dimessa da una porta laterale – per avere un’idea del terrore delle ‘purghe’ staliniane.

Più tardi, dopo la visita, vado a pranzo con un fotografo italiano che vive a Mosca, Davide Monteleone, che da anni documenta con le sue foto la vita in Unione Sovietica. Gli chiedo dove abiti. “In uno degli edifici più richiesti di Mosca, dove abitano molti expat.”, mi dice. “Si chiama House of Embankment. L’hai sentita nominare?”

 

 

Daniela De Rosa

Daniela De Rosa

Giornalista, web-editor, blogger. Nata a Milano ha vissuto a Venezia per dieci anni. Poi ha volontariamente scelto di abbandonare la “città più bella del mondo” e si è trasferita a Londra. È diventata grande ammiratrice di Her Majesty e si è data al giardinaggio. Ha fondato www.permesola.com, web-magazine per donne con la valigia, scrive guide di viaggio women-friendly, ha un podcast chiamato La Viaggiatrice Femminista, lavora come free-lance per giornali e radio, ha fondato un giornale cross-culture in inglese chiamato The IT Factor. Possiede due computer, due iPhone e un iPad, tutti perennemente connessi.
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