Sono passati 25 anni dalla proclamazione Unesco. Ad Alberobello le luci s’accendono sulla pietra, colorano i pinnacoli di rosso e di stelle, poi di blu, di verde, d’oro. La luminosità s’innalza in quel cielo che un tempo lontano in campagna e nel borgo era quasi buio e accompagnava il sonno dei contadini stanchi, rientrati dal lavoro al gelo. Lo scenario d’incanto che ammiriamo ora, con il rione Aia Piccola illuminato dalle installazioni ritmate e accese in questi giorni fino al 9 gennaio, sono la metafora della seconda, terza, quarta vita di questa città che ormai da decenni è universale, un sito in cui arrivano 150mila visitatori annui, iper-rappresentato, iper-raccontato, dai libri a Instagram, dalle Tv del mondo ai lavori dei grandi fotografi, ai siti dei circuiti turistici.

Non si possono chiamare semplicemente luci le installazioni di Francesco e Serena della Lumos per l’iniziativa del Presepe di Luce, alla quale si aggiunge – dal 26 al 29 dicembre – il Presepe Vivente (info su www.dabetlemmeagerusalemme.it), manifestazione che si tiene da cinquant’ anni ed emoziona sempre. Inoltre, filodiffusione nelle vie del paese, e l’intera iniziativa delle Christmas lights 2021, promosso dall’amministrazione comunale in collaborazione con Engie e Unique Eventi. C’è l’allestimento di addobbi e luminarie natalizie per le vie del paese, da Largo Martellotta, a piazza del Popolo, a Corso Vittorio Emanuele, sempre su iniziativa dell’amministrazione comunale in collaborazione con Centomani e Pisani e l’associazione Alberobello lovers. Proiezioni sul Belvedere e sul Trullo Sovrano, l’albero di Natale di venti metri, uno schiaccianoci luminoso di otto metri, un chilometro di ghirlande e una marea di lampadine.

Quest’anno c’è una festa in più: l’anniversario del riconoscimento Unesco, ossia la proclamazione dei trulli Patrimonio Unesco . Si torna con la memoria a quel dicembre del 1996, in cui i pinnacoli sono entrati nella lista mondiale dei beni da tutelare con una motivazione che sintetizza di molto il loro fascino, ma lo coniuga con l’immaginario comune: “Un sito di valore universale ed eccezionale in quanto i trulli sono l’esempio di una forma di costruzione ereditata dalla preistoria e sopravvissuta intatta, pur nell’uso continuativo, fino ai nostri giorni”.

Non sempre intatti – purtroppo – dato il boom turistico e alcune ristrutturazioni sfacciate, i trulli restano però un’icona indiscussa e, tra cupole e pinnacoli, incanto e meraviglia, da quando il mondo ha scoperto la Puglia, il cono trullaro sembra non avere misteri. Le curiosità attorno alla sagoma architettonica e antropologica di queste costruzioni pugliesi sono tante. Non soltanto i simboli, le forme, le origini e il modo di costruzione. Ci sono tanti aspetti di un trullo che ancora fanno parte del suo ambito sconosciuto, del suo essere Murgia, Mediterraneo e Mondo, ma in modo speciale.

Cominciano dal nome: da dove viene la parola trullo? Diremmo a memoria che la costruzione mediterranea, nata probabilmente dalla civiltà megalitica e dall’uso di creare capanne a secco con tetto a tholos, venga dal greco bizantino di cupola. Ma questo indica anche la parola vaso e a sua volta dal latino cratere, il cui diminutivo – pensate – è proprio trua, schiumarola, acquaio. Una sorta di tazza per attingere il vino, secondo alcuni. Ma di verità ne esistono tante e il concetto di trullo non solo ha un’etimologia che surclassa le ere e le genti, ma è anche nel linguaggio internazionale. Ad esempio, alcuni studiosi hanno approfondito la parola trullo rispetto alle altre lingue europee e ne hanno declinato le derivazioni: si scopre che truelle in francese è cazzuola; nel sardo è trudda, ossia cucchiaio in legno e nel salentino è voce del verbo truddare cioè l’atto con cui gli operai rimettono la pasta di olive nella macina del trappeto. Per non parlare della Trulla, nella cattedrale di Bari con il suo Vico Trulla nella città vecchia. Insomma, le diramazioni sono mille, ma anche i punti d’incontro sono altrettanti ed è come se qui da noi esistesse la sintesi di tante realtà antropologiche, vicine e lontane.

Per esempio sono stati approfonditi i legami storici tra le varie costruzioni con mensola, dai nuraghi ai tanti pozzi e cisterne, sacri e non, ricoveri per animali o fornaci. Anche qui, un mondo senza confini, tra zone ed epoche storiche: si può indagare anche oltre, tra edifici micenei, mesopotamici e persino polinesiani. Aveva ragione Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia, reportage che fu realizzato negli anni Cinquanta, nel Belpaese del dopoguerra e racconta anche molto il Sud: “L’intera Puglia è terra di passaggio di venti e di nuvole che galoppano tra mare e mare. E questo passaggio di venti è anche un passaggio di popoli, di usi e di pietre che nel tempo sono state reinventate, raddrizzate, lavorate”. Venti e popoli continuano a reinventare questa lunga Storia, con lo sguardo verso il futuro e la capacità – speriamo – di tutelare l’identità profonda della terra, delle case, della pietra, della gente.

Le foto sono di Nicola Amato

 

Enrica Simonetti

Enrica Simonetti

Per 4 anni ha lavorato nell’emittente Antenna Sud e ha pubblicato articoli su National Geographic Italia, Il Gommone, Traveller e Lettera Internazionale. Ha viaggiato molto in Italia, in Europa, negli States e in NordAfrica. Appassionata di storia del mare, ha compiuto uno studio- reportage sui fari italiani, dal quale sono nati tre libri, pubblicati da Laterza. Con un gruppo di scrittori del mare anima la “Vedetta sul Mediterraneo”, una vecchia torre a Giovinazzo (Bari) inaugurata da Pedrag Matvejevic, in cui si tengono incontri sul mare e mostre fotografiche. Lingue: inglese, francese, spagnolo.
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