
Quando in Redazione (Rizzoli, AutoCapital) c’era un po’ di maretta, io giravo al largo. Ero consapevole che per i colleghi la pubblicazione dei miei lunghi viaggi risultavano un po’ irritanti. Per me i viaggi rappresentavano il mio lavoro, per loro io ero sempre in vacanza. Probabilmente avevano qualche ragione, ma mentre loro, chini sulla macchina da scrivere (i computer sarebbero arrivati nelle redazioni verso la fine degli anni ’90) facevano carriera di anno in anno scalando il potere (e lo stipendio), io sono rimasto sempre “un collaboratore” e, dopo il 2000, un freelance, in balia degli umori di quelli che erano diventati nel frattempo caposervizio, vicedirettori e infine direttori e capi assoluti delle testate alle quali elargivo sommessamente i miei umili servizi.
Qualche volta le mie proposte facevano centro, come nell’inverno 1990 in un momento nel quale l’Europa era incredula di fronte al disgregamento dell’URSS. Proposi un viaggio in Russia arrivandoci in auto facendo il giro del Mar Nero: Turchia, Armenia, Georgia, Arzebajgian, Russia, Moldavia, Ungheria, Romania con ritorno via Austria. I miei strumenti di lavoro erano: l’auto ovviamente (di solito la mia Toyota BJ73), bussola, cartografia comprata a Parigi in Rue de Provence (il meraviglioso negozio di Marc André, 300 mq, un paradiso per i cartografi, ora una pizzeria) oppure in Rue de La Boétie ai Champs Élysée o all’ IGN a Saint-Mandé, ma anche a Milano da Azalai o Luoghi e Libri. Sul fondamentale libretto pre-Moleskine segnavo scrupolosamente il giorno, l’anno, km totali e parziali, tempi di percorrenza, temperature, carburante e note turistiche.
Partimmo da Milano, io e mia moglie, il 1° agosto diretti a Istanbul, dove avevamo appuntamento con un altro equipaggio che sarebbe partito poco di noi, dopo appena ricevuta una fiammante Pick Up HiLux dal Concessionario Toyota. Questa macchina non tornò mai più indietro; tornarono solo i piloti, ma questa è un’altra storia.

Sulla terrazza di un ristorante poco distante dal Top Kapi in attesa che arrivassero da Milano i nostri amici Giorgio e Renato, fotografavo i piatti della cucina tradizionale turca da inviare alle riviste dove collaborava mia moglie Mila (A Tavola, della Rizzoli e Cucina Naturale di Tecniche Nuove). Io intanto tracciavo rotte, scrivevo le mie note e visitavo la città. Cosa pensare, mi dicevo, di una città metà in Europa, metà in Asia Minore, metà Venezia e metà Samarkanda, dove un’automobile era fatta al 100% dal claxon (il resto contava zero), dove locantasi significava ristorante (memorie veneziane?) e il nome del quartiere Pera sotto la Torre di Galata era con molte probabilità l’origine del cognome genovese della mia famiglia? Un posto dove vivere, riflettevo.
La statale n.1 per Ankara iniziava da un molo di Ortakoi (non c’erano ancora i tre moderni ponti sul Bosforo) ed era a quel tempo a un’unica corsia con una sede stradale di larghezza smisurata. Per cui c’era sempre qualcuno più a destra di te, mentre a sinistra non essendoci limiti fisici o segni di corsia era sempre consentito sorpassare fino ad occupare anche la sede opposta sfiorando la corrente di autobus, dolmus e camion che procedeva in senso contrario. Un po’ come in quegli anni in Italia quando sulle strade di grande comunicazione si introdusse la terza corsia centrale per consentire il sorpasso in entrambe le direzioni, subito ribattezzata “la corsia della morte”, abolita dopo qualche decina di stragi.

Qui era molto peggio perché non c’erano nemmeno le strisce bianche sull’asfalto per cui si viaggiava alla cieca, sempre sul limite della catastrofe. In più procedendo verso Ankara che si trova su un altopiano a quasi 1000 metri d’altezza, la strada, nella nostra direzione, era sempre in salita. Una salita da affrontare in compagnia di camion ex militari stracarichi che, camminando a 10 km/h, fumavano come le ciminiere di carbone all’inizio della rivoluzione industriale.
Nessun tipo di veicolo, da due a sei ruote, voleva stare dietro a chi lo precedeva per cui tutti superavano tutti in una guerra di sorpassi che allargava sempre di più il ventaglio dei veicoli in competizione con tre, quattro, cinque camion o autobus affiancati in ogni direzione di marcia. Noi sulle nostre moderne fuoristrada, più veloci dei camion, per non morire asfissiati dovevamo per sopravvivere superare tutti quanti viaggiando nelle condizioni tipiche dell’autoscontro. Non so come riuscimmo ad uscire da quel caos entusiasmante e arrivare incolumi ad Ankara, dove dormimmo un giorno intero nel retro della prima locantasi incontrata in città in attesa che l’adrenalina accumulata durante la notte scendesse un po’.

Per fortuna le strade oltre Ankara erano semideserte. Visitate le funamboliche chiese e i monasteri della Kappadocia, ci dirigemmo verso il Lago Van. Prima di Malatya ci accampammo di notte in uno slargo pianeggiante in leggera discesa. Al mattino presto io e mia moglie svegliammo i due amici che dormivano sulla Air-Camping montato sull’Hi Lux, i quali scendendo dalla scaletta, diedero involontariamente una piccola spinta alla macchina che iniziò a muoversi, prima lentamente poi sempre più veloce. Evidentemente la sera prima, per la stanchezza, nessuno aveva pensato di tirare il freno a mano o di inserire una marcia. Le chiavi erano rimaste nella tenda per cui tra l’incredulità e lo sgomento vedemmo la Hi Lux dirigersi sobbalzando ormai senza possibilità di controllo verso il limite dello spiazzo che, orrore degli orrori, finiva in un precipizio di una cinquantina di metri di altezza. Della Hi Lux salvammo solo le targhe. Dopo qualche ora di shock, recuperammo il salvabile come le gomme praticamente nuove e gli effetti personali caricandoli sulla nostra Land Cuiser. A Malatya facemmo costruire da un fabbro una panchina di ferro saldandola sul pianale dietro, sulla quale ripiegammo i kilim acquistati al Bazar di Istanbul per alloggiare i nostri due amici. Vendemmo gli pneumatici che avevano percorso solo la strada dal Concessionario milanese al precipizio e qualche altra cosa e procedemmo per la nostra meta in quattro su un fuoristrada stracarico immatricolato per solo due passeggeri.

Il problema era quello di lasciare la Turchia verso l’URSS senza dover mostrare alla dogana turca il visto sul quale era notificato l’ingresso in territorio turco con la targa della macchina precipitata stampato in bella vista sul passaporto del proprietario. Nascondemmo bene i passaporti e, con grande faccia tosta, esibimmo le nostre Carte d’Identità. Se entri in Turchia in auto, devi uscire con quell’auto, non ci sono scuse. Inoltre per entrare in Georgia, che allora era al di là della Cortina di Ferro, il passaporto era evidentemente indispensabile. Decidemmo di tentare di convincere i doganieri e la polizia turca che potevamo almeno fare un tentativo con la Carta di Identità. Ci vollero diverse ore di paziente insistenza, ma alla fine uno dei poliziotti sfinito dalle nostre suppliche e con aria di sfida ci disse: “. . . andate, andate, tanto vi ricacciano indietro a colpi di kalashnikov”. Percorremmo quelle centinaia di metri di terra di nessuno in un baleno, nel terrore che i doganieri ci ripensassero. Una volta al cospetto della polizia georgiana (o russa, in quel momento non si sapeva esattamente quello che stava succedendo a Mosca, né se esisteva ancora l’URSS) tirammo fuori tutti i nostri passaporti e i visti per la Russia e passammo felicemente oltre la Cortina di Ferro. Penso che sia stato l’unico caso turistico di un ingresso così avventuroso, complice la nostra determinazione a continuare il viaggio e l’incertezza della situazione politica ai confini dell’Unione dei Soviet.
Ci rilassammo qualche ora sulle panchine lungomare della sonnolenta cittadina balneare di Bakumi sul Mar Nero, per poi improntare le strade bianche dell’interno in direzione di un sito operativo messo in piedi dalla Cooperazione italiana al tempo del terremoto della fine degli anni ’70 come Complesso Socio-Sanitario Infantile a Pegehika. Qui lasciammo i pacchi di medicinali e gli apparecchi medici donati dalla Comunità Europea anch’essi stipati sul tetto della Land Cruiser.

Ad Erevan l’unico albergo per stranieri, un imponente edificio sovietico di stile barocco, internamente tappezzato da moquette rossa abitata dagli scarafaggi più grassi mai visti, la matrioska del piano (ogni piano aveva una gestione separata) ci disse che io e mia moglie non potevamo dormire nella stessa stanza perché non avevamo con noi il certificato di matrimonio. Superato l’ostacolo in quanto non c’erano altre camere disponibili, ci installammo per la notte. L’albergo in realtà era completamente deserto, per cui noi, troppo curiosi di vedere la città, uscimmo in cerca del centro storico e di un bar o ristorante. C’era moltissima gente a piedi per le strade e facemmo subito amicizia con un gruppo di giovani incuriositi della nostra presenza. Ci spiegarono che non c’erano bar e che a quell’ora tutti i ristoranti erano chiusi; però se volevamo bere potevamo andare a casa di qualcuno di loro. Cosa che facemmo immediatamente.
L’unica bibita possibile per dissetarsi era la vodka. L’acqua era una merce molto più pregiata, venduta in bottigliette di vetro, tipo quelle della gazzosa con la pallina anni ’50, ma aveva un colore inquietante e un gusto orribile, per cui tornammo in albergo ubriachi, sicché non badammo agli scarafaggi onnipresenti. Al mattino, diretti verso il Lago Sevan, incrociammo milizie a cavallo armate di moschetto con il calcio in legno. Erano i volontari che andavano a presidiare gli incerti confini con il Nagorno Karabakh, un’area geografica (in Europa? In Asia?) dove comunità armene e popolazioni azzere si contendevano da secoli il territorio. Ad ascoltare oggi o leggere notizie provenienti da quelle aree, pare che nulla sia cambiato, a parte l’efficacia degli armamenti, i droni e i tablet.
Ma il bello della nostra esplorazione attorno al Mar Nero doveva ancora arrivare … (segue)